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Bibliografia Biografia Giacomo Zanella La Voce del Sileno

Dante a Vicenza

L’amore per Dante in Zanella nel saggio del 1859.

da La Voce del Sileno di Domenico Peterlini
Anno VI – 9 febbraio 2021

Vicenza i suoi  letterati e poeti hanno sempre tenuto in auge il poeta Dante Alighieri e la sua opera, sono da ricordare in particolar modo Gian Giorgio Trissino, che scoperse e pubblicò l’importante testo dantesco De vulgari eloquentiaGiuseppe Todeschini, Bartolomeo Bressan, Fedele Lampertico, Sebastiano Rumor e Giacomo Zanella e i tanti docenti di letteratura italiana nelle scuole vicentine che hanno promosso  e promuovono ancora con attenzione e studio la conoscenza del divino poeta. 

   Tra i tanti scegliamo Giacomo Zanella e il suo scritto destinato ai giovani studenti.
Il saggio Di due luoghi di Dante sulla passione e lo stile poetico fu pubblicato nell’Ottavo programma dell’Imperial Regio Ginnasio Liceale di Vicenza nel 1859; in quel periodo il poeta era docente e facente funzione di direttore nel Ginnasio Liceale, oggi Ginnasio-Liceo Classico “Antonio Pigafetta”. 

Copertina dell'Ottavo programma dell’Imperial Regio Ginnasio Liceale di Vicenza nel 1859.
Frontespizio dell’Ottavo programma dell’Imperial Regio Ginnasio Liceale di Vicenza nel 1859.

L’amore per Dante in Zanella era pari a quello per  Omero e Virgilio, quasi ad attestare che senza Dante non vi sarebbe stata né la lingua italiana e la cultura letteraria che proprio con il Toscano divenne  grande ed esempio paradigmatico per tutti coloro che nei versi esprimevano le proprie idee e passioni. 
Non non era la prima volta che il poeta dell’Astichello, pubblicava qualche sua considerazione sul fiorentino; l’11 maggio del 1857 all’Accademia Olimpica aveva parlato sulle idee estetiche ne La Divina Commedia. L’amico Fedele Lampertico ricorda il titolo della conversazione: Sopra alcuni passi della Divina Commedia che trattano espressamente di estetica (Cfr. Atti dell’Accademia Olimpica 1920).
La riflessione su Dante troverà, infine nello Zanella, la maggiore espressione nel testo La poetica nella “Divina Commedia” (in G. Zanella, Scritti varii,  a cura di A. Balduino, Firenze, le Monnier, 1877, vol. I).   

Senza addentrarci qui in tutti gli scritti danteschi dello Zanella che abbiamo considerato in “Dietro il bello van le genti” G. Zanella e l’arte (Vicenza, Editrice Veneta, 2020), pubblichiamo il piccolo saggio del 1859, già ricordato e dove è ben chiaro quale sia la considerazione di Zanella su Dante e quale il suo valore: “La Divina Commedia non è tanto un monumento di poesia, quanto dell’arte in generale” e la ragione di ciò e ben presto spiegata:

“Dante ha creato l’arte moderna, come Omero l’antica: ma quello che il greco non poeta non fece, ha fatto l’Italiano, che non contento di dare all’Europa l’esempio della nuova poesia, ha voluto pur anche indicare quali fossero i suoi principi sull’arte, e quali regole egli seguisse nel disegnare e colorire il suo divino lavoro.”

    Giacomo Zanella ebbe l’incarico di Direttore dell’Imperial Regio Ginnasio Liceale di Vicenza, oggi Ginnasio-Liceo “A. Pigafetta” negli anni 1858-1861, per poi passare alla direzione del Santo Stefano di Padova, oggi “Tito Livio” e quindi alla cattedra di Letteratura italiana all’Università di Padova di cui divenne anche Rettore Magnifico.
L’incarico assegnatogli, nonostante le sue ben note simpatie per l’Unità d’Italia, era comunque un riconoscimento alla sua cultura e capacità nelle lettere e nella filosofia e del loro insegnamento. Il celebre Liceo vicentino, fondato nel 1808, aveva avuto Direttori di vaglia, basti ricordare che negli anni Quaranta dell’Ottocento fu guidato da don Antonio Farina, poi vescovo di Vicenza e oggi Santo della Chiesa Cattolica.
Oltre al governo, don Giacomo Zanella si preoccupò con particolare cura dei docenti e dell’insegnamento; lui stesso insegnò Filosofia, che aveva già impartita presso il Seminario Vicentino. Nel corso del suo incarico il poeta pubblicò due Programmi dell’Imperial Regio Ginnasio Liceale e in quello del 1859 apparve il suo primo scritto su Dante Alighieri: Di due luoghi di Dante sulla passione e lo stile poetico, non sempre ricordato.
Una breve riflessione, ma in essa il poeta vicentino raccoglie quando aveva già delineato in qualche intervento all’Accademia Olimpica e con essa anticipa temi che tratterà sia nelle composizioni poetiche successive: A Dante Alighieri in tre versioni e Firenze a Dante sia, in particolare, nel saggio La poetica nella “Divina Commedia”.
Il poema di Dante è considerato da Giacomo Zanella non solo un monumento di poesia, ma dell’arte in generale, capace di coniugare la classicità con il tempo: “antico lo stile, ma moderno il pensiero.” Ciò nella linea, nella quale ben s’intende chi di poesia non fa occasione d’intellettual e soprattutto utile servigio, ma passione di poetici pensieri che vengono dal cuore, e stile, vera eredità dei grandi del passato, considerando che Omero accese Virgilio e Virgilio l’Alighieri e costui “tutti i grandi, moderni, che cantarono l’uomo redento e nobilitato dalla divinità del dogma cristiano.”

Dante Alighieri in esilio: dipinto di Domenico Peterlini o Petarlini (1822-1891). Firenze, Galleria d’arte moderna, Palazzo Pitti.

DI DUE LUOGHI DI DANTE SULLA PASSIONE E LO STILE POETICO

La Divina Commedia non è tanto un monumento di poesia, quanto dell’arte in generale. Oltre gli esempi di alto pensare e di efficacissimo scrivere, ch’essa somministra ad ogni passo a’ poeti, infiniti sono i soggetti, i gruppi, le immagini, gli atteggiamenti e le pose che da essa si possono trasportare nella tela e nel marmo; di modo che non è meraviglia, se come da Tasso a Manzoni, così da Michelangelo a Bartolini la Divina Commedia sia stata sempre tenuta come libro sacro dell’arte in Italia. Come un tempio dell’arte la considerava lo Schelling; che se vedeva nell’Inferno predominare l’elemento della scultura, della pittura nei Purgatorio e della musica nel Paradiso, non era per questo che i diversi elementi insieme cozzassero; che anzi mirabilmente si fondevano in una piena consonanza di forme, di colori e di suoni, ch’è l’estremo del Bello che da alcun artista sia mai stato raggiunto. Dante ha creata l’arte moderna, come Omero l’antica: ma quello che il Greco poeta non fece, ha fatto l’Italiano, che non contento di dare all’Europa l’esempio della nuova poesia, ha voluto pur anche indicare quali fossero i suoi principi sull’arte, e quali regole egli seguisse nel disegnare e colorire il suo divino lavoro. Non parlo delle dottrine letterarie, che sono nel libro della Volgare Eloquenza; ma nello stesso poema si trovano quà e la, sparsi alcuni luoghi, che raccolti e commentati con senno potrebbero formare un trattato di estetica forse men vano e men noioso di tanti, che educano l’uomo più all’analisi che al sentimento della bellezza.

Egli è sopra due luoghi di questa natura ch’io intendo discorrere; nel primo de’ quali l’Allighieri accenna alla disposizione d’animo che deve essere nell’artista, quando si mette al lavoro: nel secondo alla maniera, onde deve condursi nel dare una veste sensibile al portato della sua immaginazione. Il primo luogo è nel Purgatorio C. 24, ove Dante risponde a Buonagiunta da Lucca: io mi son un, che quando Amore spira, noto e a quel modo Ch’ei detta dentro, vo significando. L’altro nell’Inferno C. 1, ove Dante dice a Virgilio: Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore: Tu se’ solo colui da cu’io tolsi Lo bello stile che m’ ha fatto onore. Procurerò che le poche idee che mi verrà fatto di esporre si riferiscano principalmente alla poesia, come quella che più delle altre arti e secondo gli ordinamenti e le consuetudini del nostro Istituto.

Non è vero che l’arte sia una semplice imitazione della natura, come dietro un passo mal inteso di Orazio molti scrittori di estetica hanno insegnato. L’arte non copia, ma crea: quindi il titolo glorioso che Dante le ha dato di quasi nipote di Dio, Inf. C. 11. Come Dio prima che desse esistenza al mondo de sensibili, avea in sé stesso il mondo degli intelligibili, cioè di quegli archetipi, onde poscia ebbero forma, colore, vita e movimento le cose; così l’uomo trova nel suo intelletto que’concetti primitivi del Bello, che non si manifestano, se non quando rivestiti degli elementi sensibili, che egli toglie dalla natura, si esternano e per così dire s’incarnano nell’oggetto ch’è materia dell’arte. Nello spirito umano come sono originariamente i principi del Vero e del Buono, che gli sono di guida nel doppio campo dello speculare e dell’agire, parimenti sono sparsi i tipi virtuali del Bello, le leggi onde svolgerli, e la potenza di tradurli quando che sia nei simulacri dell’arte. L’arte in questo senso è naturale produzione dell’animo umano, come Dio medesimo, che ha creato, è poeta; e l’arte colla quale fè il mondo, fa quasi arte di poeta, e poema è il cielo e il mondo tutto, come insegna il Tasso nel Dialogo il Ficino. E però se chiamando l’arte un’imitazione della natura, intendiamo che l’arte dee imitare la natura nella ricchezza, nella varietà e nella magnificenza delle sue produzioni, noi diciam vero; ma se per questa imitazione della natura intendiamo che arte dee copiare semplicemente gli oggetti che la natura le mette dinanzi, senza che nulla vi si aggiunga dall’anima umana, non tanto degradiamo arte, quanto l’annulliamo. Chi non vede, se così fosse, che un foglio qualunque, sul quale cogli strumenti, che l’ottica ha ultimamente trovati, s’imprimono chiare e precise le immagini delle cose esteriori, vincerebbe di pregio ogni dipinto del Tiziano e del Correggio? Il che quanto sia vero, è vano di dire. Ah! non è imitazione della natura né l’inganno del senso, che noi domandiamo all’arte; noi non cerchiamo ne’suoi lavori la copia fedele di oggetti, che possiamo ad ogni istante vagheggiare in natura: ma vi cerchiamo l’uomo, il cuore e la mente dell’uomo, che doma e volge a suo senno la ritrosa materia; che rende armoniosa la parola, parlante la tela; che trasfonde la sua vita nel marmo; che eterna nel bronzo le più fuggevoli concezioni della sua mente. L’imitazione della natura non è fine dell’arte, ma semplice mezzo; in quanto che l’uomo abbisogna di segni sensibili per esprimere quella bellezza che risiede nel suo spirito; egli domanda alla natura i colori per vestire il suo interno concetto; ma la sostanza dell’opera, il fondo della composizione, intorno la quale lavora, egli altronde non piglia che dal proprio cuore e dal proprio pensiero. Dante lo dice. Mentre Buonagiunta da Lucca, il Notaio da Lentini, fra Guittone e cento altri rimatori del tempo scrivevano secondo quel mistico e secco linguaggio poetico ch’era allora comune dall’Alpi a Palermo, Dante professa ch’egli non pigliava la penna, se non quando Amore spirava e gli dettava dentro dal cuore, onde era nato il dolce stil nuovo, che l’ombre di quei vecchi udivano la prima volta, meravigliate e confuse. È nella mente del poeta che nascono e come lampo in nube si mostrano le immagini primordiali del Bello; ma queste immagini si fanno più distinte e spiccano più colorite, quando si ritemprano nel fuoco della passione, che si è desta al loro primo apparire.

Perocchè sopraffatto l’uomo dalla splendida idea, che gli è balenata nella mente, appena ha colta e si è posto a vagheggiarla, che si sente portato verso essa da un impeto di amore irresistibile, come a parto bellissimo della sua anima; non pago di contemplarla, egli la fiorisce, la vezzeggia, l’adorna con una quasi materna tenerezza; né mezzi all’uopo gli mancano per essere le facoltà del suo spirito in quell’ultimo grado di tensione di cui sono capaci. La passione è elemento principale della poesia; arcano concitamento dell’anima, divino furore, che secondo gli antichi agitava seguaci delle Muse, e li traeva a dire cose grandi, non più viste nè dette da alcuno: dicam insigne, recens, adhuc Indictum ore alio. Orazio. Senza passione non v’ha poesia, perché le idee restano senza tinta propria e senza calore; quindi è che scritte freddamente le opere più studiate dell’arte non recano diletto alcuno; né la grandezza del soggetto, né l’ordine delle materie, né la bontà della lingua bastano a salvarle dalla dimenticanza o dal disprezzo de’ posteri. Il caso di un nostro grande concittadino deve sgomentare coloro, che senza sentirsi ardere in petto quel fuoco creatore, agognano ad una palma, ch’è più dono di natura, che premio di fatica e d’industria. Deve il filosofo, quando si accinge alle sue pazienti investigazioni, procurare che l’anima sia al possibile serena e tranquilla, affinché dagli scomposti suoi moti non venga turbato il diritto procedere della ragione: il contrario è dell’artista, che non dovrebbe accostarsi al lavoro, se non quando è in tumulto la sua immaginazione, in fiamme il suo cuore; quando si sente forzato a piangere e fremere, ad esultare e gioire, secondo che ridono o piangono i diversi fantasmi che gli passano dinanzi al pensiero. Era Angelico intenerito fino alle lagrime dalla meditazione delle cose celesti, quando correva al lavoro, e creava graziosi miracoli di que’ suoi Angeli e di quelle Madonne; scosso Alfieri dalle note potenti di una musica affettuosa, si chiudeva in se stesso ed ideava le sue più belle tragedie; inorridito Mozart al pensiero dell’imminente sua fine, si traeva al gravicembolo e scriveva l’incomparabil sua messa da morto. Sono queste le ore grandi, le ore solenni nella storia dell’arte; ore che hanno dato i tratti più felici di Rafaello e di Paolo, i più bei passi di Ariosto e di Tasso; ore grandi, ma rare agli stessi ingegni più favoriti dal cielo; per cui si può dire che chiunque ogni momento è disposto a maneggiare il pennello, non può essere che un dozzinale coloritore di tele; e chi tutti i giorni si sente in vena di poesia, un parolaio non so se più noioso o ridicolo.

E chiaro pertanto che dal cuore Dante attingeva i suoi grandi pensieri; ma la veste che loro dava, cioè lo stile, egli confessa di averla tolta da quel lume ed onore di tutti i poeti, Virgilio. Dire che il poeta intenda dello stile de’ suoi versi amorosi, non della Divina Commedia, è vana sottigliezza; che lo stile de’ primi scritti di un autore rimane ne’ posteriori; forse migliorato nella forma, ma senza mutamento nella sostanza. Ora chi conosce lo stretto legame che passa fra il pensiero e lo stile; come lo stile sia la vita del pensiero, anzi una sola cosa con esso; chi conosce come ogni sommo scrittore abbia uno stile proprio, che nasce dalla tempra speciale delle sue forze intellettive e morali, potrà dubitare che le parole di Dante a Virgilio non siano tanto una confessione del vero, quanto una cortesia detta all’ombra del Mantovano, che veniva a camparlo dai mostri della selva in cui sì era smarrito. Ciò per altro non tolse che i letterati d’Italia non cercassero di vedere in che potesse consistere questa imitazione, che Dante professa di aver fatta dello stile di Virgilio. il Monti nella Proposta vuol mostrare, come il bello stile, che il Fiorentino dice di aver tolto al Romano, non sia altro che l’arte di vestire poeticamente i concetti; arte di esprimere con decoro e vivacità le idee più schife di ogni fiore di favella; arte che Virgilio possedea in sommo grado. E venendo alle prove mostra, per esempio, come Virgilio con vera magnificenza di stile innalzi e infiori la semplice e trivialissima proposizione: quando qui si fa giorno, là si fa notte.

Nomine ubi printus equis Oriens afflavit anhehs, Illic sera rubens accendit lumina Vesper: a’ quali versi mette di riscontro, come espressione delle medesime idee, que’due luoghi dell’Allighieri: Nell’ora che comincia i tristi lai La rondinella presso la mattina, Purg. C. 9; e l’altro: Era già l’ora che volge il desio De naviganti, con quello che segue, Purg. C. 8. Che le Muse mi caccino negli occhi i loro spilletti, se nei versi recati de’ due poeti io posso vedere alcuna somiglianza di stile. Ambedue descrivendo il principio e il fine del giorno, usano immagini che amplificano mirabilmente il concetto; ma niuno per questo dirà che il moderno abbia tolto il bello stile all’antico, se quest’arte di ringrandire e lumeggiare i pensieri è debito di chiunque voglia mai fare professione di poesia. Ciò che a tutti è, comune, non proverà giammai peculiare somiglianza di stile in due ingegni; molto meno se in uno di essi dominerà lo splendore di una vaga fantasia, nell’altro di una delicata passione, come si vede nei luoghi citati di Virgilio e dell’Allighieri. Il Tommaseo in quello scambio pretende di avere scoperto il bello stile tolto di Dante a Virgilio in poche frasi che strettamente si corrispondono, come sono: Largior hic campos aether et lumino vestit Purpureo, Vestite già de’ raggi del pianeta – Animus meminisse horret luctuque refugit, L’animo mio che ancor fuggiva- Maculosae tegmine lyncis, che di pel maculato era coperta. – Silentia lunae, ove il sol tace. Con titolo più giusto io potrei dire che Dante ha tolto ad imitare lo stile di Lucrezio, opera del quale, per quanto puossi congetturare, non fù pur vista da lui. Graius homo mortale: tollere contra Est oculos ausus, Contro il suo fattore alzò le ciglia. – Iamque caput quassans grandis suspirat arator, Poi ch’ebbe sospirando il capo scosso. Mortua cui vita est prope iam vivo atque videnti, Questi sciaurati che mai non fur vivi.- Dulcedinis in cor Stillavit gutta, Ancor mi distilla Nel cor lo dolce; e molti altri luoghi, da’ quali apparisce non già che Dante imitasse Lucrezio cui, per quanto sappiamo, non conosceva; ma che la natura si compiacque talvolta dì rivelarsi a questi due sommi sotto le stesse forme e quasi collo stesso linguaggio. L’imitazione pertanto che Dante ha fatta di Virgilio deve cercarsi altrove che nell’uso di amplificare i pensieri, comune a tutti i poeti, o nella fortuita corrispondenza di alcune poche sentenze e locuzioni. Tra lo stile di Virgilio e quello di Dante corre differenza sì grande, che non è maggiore fra lo scolpire e il dipingere; Dante è breve, vigoroso, calzante, incisivo; Virgilio è bello per ubertà e morbidezza di stile più largo che preciso: più soave di colore, che denso di pensieri e di affetti. In un sol modo pertanto mi pare che Dante possa dire di essersi giovato di Virgilio, cioè nel dare al verso italiano una struttura più nobile, e un andamento più vario che prima non aveva.

Come Raffaello dalle mosse e dai panneggiamenti delle statue greche trasse una grandezza di stile, che non si trova nei dipinti de’ suoi predecessori; così Dante del poema di Virgilio cavò quella ricchezza d’immagini, abbondanza di lingua, varietà di espressioni, che invano si cerca nei più vecchi rimatori d’Italia. Ha imitato Virgilio, come si conveniva ad un uomo che voleva alzare l’italiana poesia a quell’altezza, a cui Virgilio avea levata la latina; ha imitato Virgilio, ma liberissimamente, si può dir anzi, in un genere diverso; come Raffaello ha imitato Prassitele; come Michelangelo ha poscia imitato lo stesso Allighieri. Sono ingegni di un ordine altissimo che si scontrano nelle regioni più elevate dell’arte è si comunicano a vicenda quegli splendori, che attinsero partitamente alle sorgenti del Bello.

Dante non si accostava a Virgilio per carpirgli i fiori più belli, una descrizione, una similitudine, una sentenza, come fecero tanti gretti imitatomi; ma gli si accostava per udirne i sermoni che a poetar gli davano intelletto, Purg. C. 22; gli si accostava come ad una fiamma, al cui calore la sua anima si riscaldasse e fecondasse di forti pensieri. Dante tolse da Virgilio non lo stile nel senso consueto della parola; ma l’esempio del caldo e virile poetare; l’incendio, che gli covava nel cuore, divampò luminosissimo, tostochè vi caddero sopra le faville dell’Eneide; poiché l’estro poetico, secondo la dottrina di Platone, è fiamma che passa da un uomo nell’altro, dall’artista nel popolo, dai presenti nei futuri; Omero ha acceso Virgilio; Virgilio l’Allighieri, e Allighieri tutti i grandi, moderni, che cantarono l’uomo redento e nobilitato dalla divinità del dogma Cristiano.

In due modi può il poeta sfogare la passione che porta nel cuore. Può dimenticando sè stesso, trasferirsi tutto ne’ personaggi, che la sua immaginazione ha creati; porsi nelle loro condizioni; vivere con essi, con essi sentire; indossare ora la porpora del re, ora la cocolla del monaco, ora il saio del soldato, sempre nascondendo sé stesso, e sempre parlando il linguaggio convenevole agli esseri, che chiama sulla scena; in questo genere più autore è celato, e più l’opera riesce meravigliosa e perfetta.

Tale generalmente è la poesia degli antichi, cresciuti più di noi alla vita esteriore, e de’ moderni Ariosto, la Fontaine, Goëthe, Monti ed altri; poesia varia, pomposa, cangiante come la veste delle Fate, piena di splendore né priva di affetti, che sgorga dall’immaginazione del poeta, come fiume profondo sì ma tranquillo, sulle cui acque si dipingono non alterate le immagini de’ campi, delle ville, dei giardini e delle città, per mezzo le quali trascorre. Altro genere di poesia è quando l’autore comparisce, si mostra, parla ed agisce personalmente in ogni parte dell’opera; ritrae la natura, ma in parte coi colori della sua fantasia; anima i suoi personaggi, ma più che con altro, col fuoco delle sue individuali passioni. Lo spirito del poeta non è più lo specchio fedele, che riflette gli oggetti come sono realmente; ma un’accesa fornace, nella quale le varie materie si mescono e liquefanno per passare in nuove composizioni dell’arte, che gareggino di bellezza coll’opere più perfette della natura; gli oggetti perdono di loro reale sembianza per assumere le qualità dello spirito, che li apprende; che s’è lieto, trova dappertutto le rose; se mesto, assenzio nel mele. Petrarca, Tasso, Byron, Leopardi poetarono in questa maniera, che i moderni, educati più che gli antichi a conversare col proprio spirito, preferiscono all’altra. Quindi è che nell’ode, nel sermone e nell’elegia, che sono espressione degli affetti e delle opinioni dell’uomo che scrive, i moderni hanno il vanto dell’eccellenza; mentre nell’epica e nella drammatica, che domandano l’acconcia e schietta pittura de’ fatti, delle idee, dei costumi e delle passioni degli eroi, ch’entrano nella tela del componimento poetico, gli antichi siedono ancora non superati maestri. Qualche moderno che volle tentare ambo i generi, cangiando la lira col coturno o viceversa, ha fatto prova non bella; come avvenne di Foscolo, che grandissimo nella lirica parve minore della sua fama nelle tragedie. Sono due generi di comporre che esigono facoltà d’ingegno diverse, che la natura, per larga che sia de’ suoi doni, non suole d’ordinario congiungere nello stesso individuo. Un solo nella memoria di tutti i tempi e di tutte le nazioni ebbe in altissimo grado le due facoltà produttrici di ogni Bello poetico; la facoltà di creare un mondo di esseri che diversamente si atteggiano e parlano, come porta la loro natura; la facoltà di mostrare ad ogni passo sé stesso, il proprio cuore e le proprie credenze; e questi fu Dante Allighieri.

Nel suo poema quale ricchezza di forme, di atteggiamenti e di mosse: Quale varietà di linguaggio da Francesca a Catone, da Farinata a Piccarda, da Ugolino a Cacciaguida!

Ogni condizione presente e futura dell’uomo, ogni movimento dell’anima. Ogni aspetto dell’universo v’è dentro ritratto; e con tale verità di espressione, che la natura mai non ebbe più fido pittore di lui. D’altra parte quale è poema, in cui l’autore più manifesti sé stesso? In Dante si può dire non essere un verso, che non porti l’impronta del suo genio e la stampa di quelle grandi passioni, che tempestosamente si disputavano impero del suo cuore. Amante fervidissimo di Beatrice, intrepido cavaliere a Campaldino, prudente rettore della sua patria, esule venerabile a’ principi, censore d’Italia e sacerdote del genere umano, Allighieri si è per così dire trasfuso nell’immenso poema, ove Beatrice e l’esiglio, il vizio e la virtù, Firenze e l’Italia gridano la parola dell’ira, dell’amore, della rassegnazione e della speranza; parola che finalmente si perde nell’inno della gioia, che dai gradi della candida rosa i beati comprensori intuonano a Dio. L’austera faccia del poeta, che rileva in ogni parte della tela stupenda; che si corruga ed infuoca di sdegno alla vista della colpa e delle sue pene; che si spiana e sfavilla di gioia allo spettacolo del rassegnato patire e del trionfo di Cristo e degli Eletti nel cielo, infonde in tutto il poema il calore di un sentimento attuale, che dal verso trapassa nell’animo de’lettori e vi desta quegli affetti medesimi, che con rapida vicenda si succedeano nell’anima dell’accigliato compagno di Virgilio e di Beatrice. Solenne riprova del proponimento, che Dante si avea fatto di non iscrivere, se non quando la passione gli dettava nel cuore; perocché, come Orazio ha notato, uomo pegli altrui detti né ride né piange, se chi parla non è mosso profondamente egli stesso da qualche allegrezza o dolore.

Dalle cose dette conseguita, che come Dante da ninuo ha tolto il disegno del divino poema, così da niun altro, che da se stesso, ha tolto lo stile; né potea essere altrimenti. Chi scrive coll’anima riscaldata da forti passioni, trova, che come spontanee gli nascono in mente le idee, spontanea parimente gli si porge la veste, ond’esprimerle; anzi che l’idee e la veste sono ad un tempo. Nondimeno questa confessione fatta dell’ingegno più grande ed inventiva dei tempi moderni, di essersi rivolto per l’acquisto dello stile a un antico, può tornare non inutile ammaestramento all’arte moderna. Di quanto noi superiamo gli antichi nell’ampiezza e varietà delle cognizioni,- di tanto sottostiamo ad essi nella maniera di esporle, ch’è lo stile. Né la colpa è più nostra, che delle tarde età, nelle quali ci accade di vivere.

Gli antichi furono primi, che si posero a ritrarre l’uomo e la natura, fra la loro mente e le cose niun mezzo artificiale si era ancora frapposto, che confondesse o falsasse la vista, quindi quella semplicità, quel candore, quella quasi verginale bellezza che tanto innamora ne’ loro scritti. Ma noi moderni nutriti di varie né sempre buone letture, ingombri la mente delle altrui frasi e sentenze, a fatica possiamo mirare gli oggetti, come stanno naturalmente; crediamo molte volte di esprimere i nostri concetti, e non siamo che eco degli altrui; onde avviene, che le nostre scritture sono d’ordinario senza vita e senza calore. Imitiamo adunque gli antichi, non col copiare servilmente le loro idee e locuzioni; ma nel vedere le cose, com’essi le vedevano; e nell’esprimere i nostri pensieri, com’essi esprimevano i loro. Antico lo stile, ma sia moderno il pensiero. Senza passione l’arte non vale: ora la passione non può esser desta che da cose che strettamente ci appartengono e toccano. E però scrivendo abbiamo sempre dinanzi l’aureo consiglio, che dava al Foscolo il Pindemonte: antica l’arte Onde vibri il tuo stral, ma non antico Sia l’oggetto in cui miri; e al suo poeta, Non a quel di Cassandra, Ilo ed Elettra, Dall’Alpi al mare rara plauso Italia.

Il testo è pubblicato per gentile concessione dell’Editrice Veneta, che fu stampato in occasione  dell’edizione 2010 del  Premio “Giacomo Zanella”, indetto dal Comune di Monticello Conte Otto, nella cui frazione di Cavazzale il poeta costruì il suo buon ritiro e dove morì.

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