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Bibliografia Biografia Giacomo Zanella Italo Francesco Baldo

Il Duca Minimo e l’Abate

Gabriele d’Annunzio e Giacomo Zanella

di Italo Francesco Baldo
Il seguente testo è stato pubblicato nel. 2022 in un fascicolo in tiratura limitata a cura dell’Amministrazione Comunale di Monticello Conte Otto.
Difficile pensare all’accostamento tra Don Giacomo Zanella nel pieno della sua maturità artistica e il giovane Gabriele d’Annunzio, eppure ebbero nel 1886 il 66enne e il 23enne lo stesso editore, quel Barbèra di Firenze che fu un valido promotore di giovani e non più giovani poeti e letterati. Il pescarese pubblica San Pantaleone, una raccolta di novelle d’ambiente abruzzese inteso quasi in modo bucolico e il vicentino Edvige, un racconto in versi cui fanno da sfondo ambientato le aure rive del Garda.  Il giovane che intraprendeva con vivacità talora sensuale e non solo la sua lunga carriera che lo porterà a grandi risultati non solo nelle patrie lettere, l’altro che nel buen retiro di Cavazzale all’insegna della “quiete virgiliana” lavorava intensamente allo studio della letteratura italiana tra settecento e ottocento e a quei Paralleli letterari vera ed autentica fonte di riflessione sulla poesia e la letteratura italiana e straniera, una modalità poco praticata e poco studiata. Accanto la composizione di sonetti per completare, come progettava, i 100 sonetti dell’Astichello, quel compimento della sua poesia che fa di lui il vero precursore del verso del novecento.  Difficile trovare collegamenti tra colui che chiede per sé una vita brillante, dove tra egotismo ed estetismo vi è l’aspirazione ad un’esistenza eccezionale, inimitabile, cosa che gli riuscirà senz’altro e il mite poeta vicentino, grande fin dalla prima sua opera dedicata alla giovinezza e all’ultima, sonetto XCIV dell’Astichello, dove chiede che alla sua vecchiezza sia consentito “qualche estate”.

    Eppure, eppure a ben intendere nel godere dei versi e dei racconti dei due letterati un filo che li unisce v’è, in modo diversi, in disposizioni d’animo diverse, l’uno volto ad un orizzonte che vuole assoluto, l’altro consapevole che, se l’orizzonte non cerca la verticale dell’anima, non sa sognare quello stabile albergo che porta all’eterna festa. Certo l’amicizia, l’amore D’Annunzio inteso in senso sensuale, nell’altro come sostanza delle relazioni umane e divine sono in ambedue presenti, come li accomuna quel grande pathos verso la natura che in Zanella diviene comprensione del mondo e della vita e soprattutto quiete: “e m’è ventura / Pascer la mente, di sognar già stanca/ Nella schietta beltà della natura.” La natura guida lo Zanella fin dalla fanciullezza, sonetto XVIII:” Or che trassi all’aperto, e per sentiero / Fresco di fiori mi guidò Natura / A’ suoi vergini fonti, e più non fura / Mitica benda alla mia mente il vero”, ma essa è quasi onnipresente nel giovane e nel vecchio Vate, come inno festante; così in Primo vere: “L’immensa solitudine secura / m’avvolge in sua magia; / ne ‘l sentimento de l’alma Natura / la mia anima s’oblìa,”  e pure in Alcyone, Il Fanciullo: “Se interroghi la terra, il ciel risponde; / se favelli con l’acque, odono i fiori.”

    Fiori selvaggi, ricorda spesso D’Annunzio, quelli che nella sua immersione panica lo fanno sussultare di gioia: “Piove…su le ginestre fulgenti / di fiori accolti, / su i ginepri folti / di coccole aulenti,” e il rimpianto: “, quanti fiori fioriranno / che non vedremo, su pe’ fulvi monti!”

    Intendimenti diversi? Ma quell’unica origine di molti dei loro nella semplice natura, quasi che la fanciullezza li serbi puri in tutti gli anni, esperienze d’ogni genere. Panismo anche in Zanella? Forse in qualche accenno alla vitalità della natura, ma certo un cercare in essa profondo significato, profonda indagine che porta gioia che nell’ “’uman core è nel mistero”.

 Ma dove i due s’incontrano:

Natura ed Arte sono un dio bifronte
che conduce il tuo passo armonioso
per tutti i campi della Terra pura.
Tu non distingui l’un dall’altro volto
ma pulsare odi il cuor che si nasconde
unico nella duplice figura.

Gabriele d’Annunzio
Il Fanciullo

Disse Natura all’Arte: Io tutto quanto
Nel mondo appar, dall’atomo alla stella,
Dall’elefante al fiorellin che abbella
Della ridente primavera il manto,
Tutto creo, tutto avvivo. E tu col canto
Angusto e con la tacita favella
De’ tuoi colori, temeraria ancella,
Di meco gareggiar t’arroghi il vanto?
L’Arte rispose: Se tu crei, non curi
L’opere tue: di fiori ammanti il campo,
Poi con rapida vece a noi li furi,
Qual se i tuoi parti abbia tu stessa a scherno;
Io colgo a volo un tuo fuggiasco lampo,
E con la rima o col pennel lo eterno.

Giacomo Zanella
Sonetto XXXIX

  Ma i temi possono essere altri per ciascuno dei due poeti e nei quali si inverano e tra tutti merita almeno un accenno il rapporto che ebbero con l’altra metà del cielo. Uno con amorevole vicinanza fu maestro di vita e poesia per tante Signore, che voleva emancipate dalla cultura e le vide, ma non le intendeva “libere” al modo di George Sand. L’altro colse della donna l’amore come eros profondendosi nella dimensione della sensualità.  Due modi di intendere, uno la philia, l’altro l’eros, ma nella philia il fine per don Giacomo è l’àgape, mentre per Gabriele l’eros domina ed è inteso come “ piacere”, che  viene quasi divinizzato e in ciò privato nella sua realtà originaria della dignità, che nella filosofia platonica è pure a estasi verso il Divino. Proprio l’eros con D’Annunzio diviene facilmente negli imitatori anche un vero degrado della donna e dell’uomo. Cosicché al valore del dono che la sessualità può portare, si sostituisce la ricerca affannosa di effetto a tutti i costi. Si degrada in ciò quel dannunzianesimo che diviene moda e che oggi si diffonde inteso come “liberazione”. L’eros diviene discesa e non ascesa e si consuma solo nella carnalità. Solo per ricordare Giulietta si abbandona a Romeo, ma prima chiede che vi sia “il santo matrimonio”.  Nulla di più distante dalla visione che Zanella ebbe dell’amore verso gli amici e le amiche che trattò con quel rispetto dovuto che è indice di vera relazione.

    Differenze notevoli che vanno ricordate e precisate e ciò per sottolineare anche come in Zanella l’amore di cui spesso parla è affetto che si rivolge a coloro che si amano perché immagine di quell’amore che discende dal cielo e al cielo ritorna. Come ben possiamo ritrovare in tante poesie, cfr. Egoismo e carità, L’amore materno.

   Tra i due poeti un’ulteriore relazione possiamo rintracciare: quella del patriottismo. In un anelito all’unità dei popoli italiani Zanella che la voleva dal Brennero alla Sicilia, pagò per questa sua idealità, ma vinse allorché si comprese che egli avrebbe voluto un’Italia “moderata”, ossia con armonia di tutte le parti e soprattutto tra l’antica fede e la nuova  società. Per questo divenne “il poeta dell’Unità d’Italia”. Questo gli riconosce D’Annunzio, che operò da patriota dapprima impegnandosi nel primo conflitto mondiale, per Trento e Trieste unite all’Italia, ma poi cedendo ad una modalità che sconfina in atteggiamenti più che in nobile costruzione, dapprima nella Repubblica del Carnaro e poi credette di trovare nella prospettiva del fascismo, un legame che voleva condurre, ma dal quale, invece, fu condotto al dorato soggiorno di Salò.

  Non spingiamo oltre in queste note, lo sviluppo della poesia e prosa dannunziane nel 1888, anno   della morte del poeta vicentino è ancora in fieri e la relazione che possiamo rintracciare è prevalentemente quella sulla natura, l’ambiente agreste da ambedue i poeti amato e cantato con intonazioni diverse, ma sempre con amore e considerazione che li porta a ammirare e vivere e ad un confondersi in essa. In D’Annunzio con un senso panico, in Zanella nella pacatezza del creato che a Dio porta. In questo sottolinea il D’Annunzio Zanella perseguiva quella possibile tranquilla conciliazione tra ricerca scientifica e autorità del dogma.

Un giovane Gabriele d’Annunzio.

   Ma qui vogliamo ricordare  soprattutto come nel giovane D’Annunzio vi fosse ammirazione per il poeta  vicentino, che stimava per “la mirabile efficacia di stile” e non  ne vedeva certo un “disastro” come colui che per voler esser arguto offende chi del Manzoni, che certo di versi s’intendeva, aveva considerazione  quando affermava che “ i versi di Zanella son tutti belli” o come afferma Giulio Marzot il poeta apparteneva a quel comune amore  per la “perfezione stilistica” che era anche di Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Giovanni Marradi.[1]

    Il 17 maggio 1888 Giacomo Zanella nella sua villetta a Cavazzale, dopo una breve malattia, rese l’anima a Dio. Unanime fu il cordoglio di tutta la provincia di Vicenza e dell’Italia intera per un poeta che aveva dato lustro, senza tanto inorgoglirsi con appositi convegni e concerti o dichiarando di scrivere per l’eternità e mai offensivo della dignità umana e letteraria di chicchessia. Ne sono prova i tanti componimenti a lui dedicati con affetto e venerazione per l’opera sua intelligente, per l’umanità, il servizio sacerdotale, la capacità educativa e l’amore di patria e quel richiamo forte alla scienza a non valicare i confini che le sono propri per abbattere o proscrivere Colui che ha dato vita proprio al creato e che l’uomo è chiamato a studiare, senza presunzione: “Oh quante volte avvien che in umil cosa / Che nel tuo superbir sprezzi od ignori, / Egro mortal, sia la tua vita ascosa!”

    Tra i tanti che parteciparono al lutto per la morte del poeta, Gabriele d’Annunzio aderì con uno scritto pubblicato sulla “Tribuna” il 19 maggio 1888 di cui era redattore fisso, poi raccolto in G. D’Annunzio, Pagi ne disperse: cronache mondane, letteratura, arte, coordinate e annotate da A. Castelli, Roma, B. Lux, 1913. Il testo dell’articolo è alquanto lungo e affida alle parole come sempre ben costruite, un’analisi ed un giudizio, prima d’encomio e alla fine un po’ troppo sbrigativo “intorno a questo pacato e gentile artefice di versi”, che nessun detrattore allora ed oggi può scalfire se non ricorrendo al dileggio che sfiora l’offesa e il cui dire è per quelli ottocenteschi già sparito e per quelli del ventesimo secolo abbandonato a piccoli dottorelli o saputelli che credonsi grandi per “criticare”, ma finiscono nel ribobolo di coloro che poco o nulla hanno letto e considerato.

    D’Annunzio scrisse tenendo presente la complessità della vita e della produzione di Giacomo Zanella, compresi testi, inquadrandola nel contesto suo storico e culturale. Il pescarese elogiò le poesie contenute nel volume Versi, edito dallo Zanella nel 1868, ma non la produzione successiva, che, a conclusione dell’articolo, liquida frettolosamente e stima i “versi e le novelle mediocri” e neppure mostra attenzione per quella indagine critica che sono i Paralleli letterari, poco allora e anche oggi studiati e della Storia della letteratura italiana dal settecento ad oggi rivela di non conoscere nemmeno l’esatto titolo.

   Un testo questo di D’Annunzio che ondeggia tra una vera ammirazione e un giudizio sulla ultima parte della vita poetica di Zanella dove non conosce e forse non vuole dare conto né del racconto poetico né della silloge Astichello, il compimento della poesia zanelliana, proprio perché “il minuto mondo” non coglieva quella già tipica prospettiva che mirava all’eccezionale, alla superiorità dell’individuo su tutto. Direzione che certamente non era propria del mite Zanella. 

   Una conclusione poetica non poteva mancare da parte di D’Annunzio che coglie con immediatezza il senso della vita e della poesia dello Zanella, trascrivendo due quartine tratte da La veglia.

[1] G. Marzot, D’Annunzio interprete letterario, “ “La nuova Italia”, 9 (1938, n. 1, p. 180.


Gabriele d’Annunzio
GIACOMO ZANELLA

   Un telegramma di Vicenza, in ritardo, ci annunzia che questa notte è morto l’abate Giacomo Zanella.

    Ci manca oggi il tempo per occuparci degnamente del poeta della Conchiglia fossile; ma crediamo che intorno a questo pacato e gentile artefice di versi non si potrebbe dire cose più giuste e più schiette di quelle che disse Giosuè Carducci nel capitolo “Dieci anni a dietri” delle Confessioni e battaglie ( serie seconda).

    Dopo avere, con mirabile efficacia di stile, rappresentato in brevi tratti la rinascente vita letteraria italiana fra il ’67 e il ’70, quando “il ribobolo trionfò per più mesi fra il dirugginio del macinato: lo stornello sbirichinò fra l’inchiesta e il processo Lobbia”, Giosuè Carducci passa a parlare della poesia.

Giovanni Prati pubblicava l’Armando, nel quale, tra molta scoria romantica, “scorrevano rivi di poesia tali che l’Italia non n aveva veduto scendere di più limpidi e freschi dal Parnaso. E chiudeva la prefazione all’Armando con queste parole: il mio non è un libro politico.

   “ Fin d’allora – scrive il Carducci – fin d’allora si cominciava a predicare il bando della politica dalla letteratura. E il Prati parlava in buona fede: in lui il nome che più dura e più onora non ha bisogno di amminicoli politici. Ma altri predicavano perché a loro dispiaceva che non a tutti piacesse la politica che piaceva a loro. E intanto i partiti seguitavano a spingere e a sollevare, come è naturale, lo scrittore che usciva dalla loro file e il libro che faceva i loro interessi.

   “I moderati veri, che infine hanno da essere conservatori se qualche cosa vogliono moderare, trovarono il loro poeta in Giacomo Zanella. Per quelli che invocano o aspettano l’accordo della libertà con la fede, del progresso col domma, dell’Italia colla Chiesa, Giacomo Zanella era l’uomo. Ai superstiti dell’antica Italia, agli eredi delle antiche idee, ai riformisti, ai neoguelfi, egli prete ricordava e rinnovava i bei tempi nei quali il prete era parte integrante della società italiana. L’abate italiano riformista e mezzo giacobino col Parini, soprannuotato minato col Cesarotti e col Barbieri alla rivoluzione, che s’era fatto col Di Breme bandito – re di romanticismo e soffiatore nel carbonismo del ’21, che aveva intinto col Gioberti nelle cospirazioni e bandito il Primato d’Italia e il Rinnovamento, che aveva col Rosmini additato le piaghe della Chiesa, che aveva coll’Andreoli e col Tazzoli salito il patibolo per il santo peccato del patriottismo; l’abate italiano viveva e vive ancora a lungo e onorato in Giacomo Zanella, ridotto in certe proporzioni, migliorato in altre. La poesia dell’Abate usciva dai seminari, ma da quei seminari veneti alquanto mondanetti, illustrati dalla filologia del Forcellini, dall’estetica del Cesarotti, dalle grazie (un po’ adipose, a dir vero) del Barbieri. L’abate Zanella aveva cominciato esercitandosi con gli altri chierici in gare di traduzioni da Ovidio e da Orazio; ma poi aveva tradotto anche dallo Shelley, e mostra di saperlo apprezzare con larghezza e forza di giudizio, tutt’altro da seminario. Rifiorivano nei suoi versi le belle tradizioni della scuola classica: il Mascheroni, didascalico, vi s’era fatto lirico; il Parini lirico vi appariva ammorbidito e più ortodosso; l’elegiaco e moralista Pindemonte, smessa la cipria colla quale era solito ballare in gara al celebre Picche, pareva aver curato con un trattamento scientifico certa debolezza di nervi presa nell’ambiente poetico inglese del regno di Giorgio III e s’era un po’ riscaldato e imbrunito alla primavera del 1848.

  “Oltre di ciò, nelle poesie dell’abate Zanella gli accordi e la conciliazione fra la ricerca scientifica e l’autorità del domma, fra il pensiero moderno e l’eternità della fede, fra il sentimento nuovo irrequieto e le regole dell’arte tradizionale, erano  ingenuamente, sinceramente, candidamente perseguite, volute, credute raggiungere. E a volte la trepidazione dell’uomo sottomesso che pure ha scorto i miseri dell’essere, era resa con umiltà di affanno, in armonie non dal profondo strazianti, ma da gemente tranquillità, dal poeta che rialzava gli occhi al cielo. E la gloria della pace ritrovata in codesto alzare degli occhi sonava amabilmente modesta, quasi accorata. Tale contenuto poetico fu il calmante aspettato e richiesto, e fu annunziato a grandi voci da molta gente, a modo, massime in Toscana e nella Venezia. Del resto quando mai la poesia moderna aveva trovato un’ornamentazione di gusto così corretto per le feste di famiglia, per le parate dell’industria e per i trionfi del tecnicismo? Quando mai da molti anni la breve, snella, arguta strofa classica era stata carezzata e liberata al volo con tanta abilità, facilità e grazia? Dei detrattori dell’abate Zanella, che ha o chi troverà altrove nelle rime d’oggi lo spirito lirico che ondeggi circonvolgendosi con un mite rumore di marina lontana nelle volute meravigliosamente delineata marcate e colorite della Conchiglia fossile”.

   Migliore elogio e più sincero non si potrebbe fare dell’abate Giacomo Zanella. Nel quale però, dopo il volume di poesie edito per i tipi di Gaspare Barbera a punto nel 1868, la facoltà poetica parve che si andasse sempre più affievolendo.

   Egli pubblicò, dopo, altri piccoli libri di versi mediocri e novelle poetiche mediocri; e pubblicò un volume di Paralleli letterari e una Storia critica della letteratura italiana degli ultimi tempi (titolo esatto: Storia della letteratura italiana dalla metà del settecento ai giorni nostri) che hanno pochissimo valore di critica e di stile. Nel 1886 diede anche una versione poetica degli idilli teocritei.

    Nato a Chiampo, comune del Vicentino, nel 1820, Giacomo Zanella ebbe in Vicenza gli ordini ecclesiastici, quindi fu richiamato ad insegnare Filosofia e lettere a Venezia. Dopo qualche anno passo a Padova, a dirigere il Liceo; ed ivi rimase, in seguito, come professore di letteratura italiana alla Università degli Studi.

   Egli è morto vo serenità grande di cristiano, nella città amata che gli prepara onoranze funebri solenni.    

  O di futuri elisi
Intimi tempi e desideri immensi,
Dal secol derisi
Che a moribondo nume arde gl’incensi,

  Chiudetevi nel canto
Del solingo poeta, e men doglioso
Fate a’ congiunti il pianto
Che il sasso scalderà del suo riposo.

                                        Duca Minimo

La copertina del fascicolo edito nel 2022 in tiratura limitata.

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